la memoria è un ponte verso la libertà

Un lontano Natale

Tutto cominciò la notte di Natale di un anno lontano. In quel tempo, nella mia famiglia, la consuetudine era che Babbo Natale lasciasse i regali per noi bambini ai piedi del letto e non sotto l’albero. Io dormivo nella camera con mia sorella che ha cinque anni più di me e che, per non distruggere la magia, fingeva di credere ancora in Babbo Natale.
Quella sera, la vigilia di Natale, ci coricammo insieme piene di speranza, in attesa del mattino che certamente ci avrebbe riservato le agognate sorprese. Non sapevo quali regali avrei ricevuto, non ne avevo mai parlato, non avevo nemmeno scritto la letterina, ma dentro di me covavo l’intima speranza di ricevere un giocattolo di cui tanto parlavano le mie amichette: un gioco nuovo, poco conosciuto, che poche bambine avevano la fortuna di possedere. Volevo la Barbie.
Forse oggi sembrerà un giocattolo banale e scontato, ma a quei tempi la Barbie rappresentò una vera e propria rivoluzione. Le bambole precedenti avevano tutte il corpo da bambine affinché chi giocava con loro immaginasse di ricoprire il ruolo della mamma accudendole e coccolandole. La Barbie, invece, aveva un corpo di donna bella ed elegante, truccata e con dei lunghi capelli biondi, cosicché chi interagiva con lei nel gioco, potesse sentirsi grande.
La Barbie approdò in Italia nel 1964 e fu proprio la notte di quell’anno che Babbo Natale me la lasciò accanto al letto. Quando, piena di speranza, aprii la scatola in cui, insieme a qualche peluche e a una scatola di costruzioni, c’era proprio lei, pensai che Babbo Natale mi avesse letto nel pensiero e che, forse, ero stata brava per meritarmi ciò che più desideravo. Provai una gioia infinita quando mia sorella aprì la sua scatola di regali e mi disse: Guarda, Irene, ho una Barbie anch’io!
Avremmo potuto giocare insieme, essere grandi insieme, entrare nel mondo degli adulti, usare la nostra fantasia per creare storie e situazioni diverse.
Nella nostra camera c’era una lunga scrivania con due postazioni per scrivere e, al centro,si trovavano due cassetti, uno sopra l’altro. Nei giorni seguenti li svuotammo togliendo gli oggetti che vi erano contenuti e decidemmo che sarebbero state le case delle nostre Barbie. Quella di mia sorella al primo piano e la mia al pian terreno. Mia sorella era brava nel cucito. Con dell’ovatta e della stoffa bianca creò due materassi e due cuscini, sotto i quali pose due scatolette vuote di caramelle. Su queste posammo i materassi e, su quei letti improvvisati, ponemmo dei fazzoletti di stoffa che fungevano da lenzuola. Di fianco ai letti due contenitori di fiammiferi rappresentavano i comodini e, sulla parete opposta dei cassetti, sistemammo due scatole più grandi, forse scatole di saponette, che rappresentavano gli armadi. Ricordo appena che, nei giorni seguenti, mia sorella cucì dei vestiti con dei ritagli di stoffa inutilizzati di nostra madre, affinché le nostre Barbie potessero cambiare abiti e partecipare agli eventi sociali che via via ci inventavamo. Le due Barbie erano grandi amiche e condividevano tutto. Spesso mangiavano insieme, parlavano con le nostre voci, si confidavano segreti e sogni, si sostenevano e si aiutavano nei momenti difficili. Così in me e anche in mia sorella, nonostante fosse più grande, nasceva e si consolidava il senso dell’amicizia, un valore che nasce nell’infanzia e che, col tempo, diventa fondamentale. Le nostre Barbie, nel giro di poche settimane, a seconda degli abiti che indossavano, diventavano modelle, infermiere, segretarie, principesse, maestre.
Io e mia sorella giocammo per mesi con le nostre Barbie, finché un giorno lei mi disse che quel gioco l’aveva stancata e, poiché era ormai diventata adolescente, nel suo tempo libero cominciò ad ascoltare la musica, a uscire con le amichette, a invitarle a casa per chiacchierare e, forse, per parlare di ragazzi verso i quali cominciava a nutrire un certo interesse. Così continuai a giocare da sola, immaginando che l’amica della mia Barbie fosse partita per un lungo viaggio di lavoro continuando a inviare lettere e cartoline che terminavano sempre con “ti voglio tanto bene”.
Io non capivo a qui tempi quale fosse il messaggio che l’inventore della Barbie volesse lanciare alle bambine attraverso la sua bambola così diversa dalle altre. Soltanto più tardi mi resi conto che, grazie a lei, da grandi possiamo diventare ciò che sogniamo o desideriamo di essere, senza limiti o vincoli. E anch’io, crescendo, prima di riporre la mia Barbie tra i miei ricordi di bambina, la guardai negli occhi, quegli occhi così grandi ed espressivi, e mi sembrò di leggervi una frase che tutti dovremmo ripeterci ogni giorno: sii ciò che vuoi essere.

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