la memoria è un ponte verso la libertà

Le mani di mio padre

Da bambino mi incantavo spesso a guardare le mani di mio padre.
Sono nato in una casa piccola, minuscola.
Un mini appartamento al piano rialzato che non credo raggiungesse i quaranta metri quadri. Di fronte al portone di casa c’era un ufficio postale e accanto un giardinetto brullo e poco curato, perfetto per pomeriggi passati a giocare con le biglie di vetro tra polvere e lunghe ore vuote da far trascorrere. Quelle sfere luccicanti sono le uniche pietre preziose che io abbia mai visto in vita mia. Quelli sono anni in cui ho imparato ad accontentarmi di poco e trasformare quel poco in felicità.
Mamma lavorava in casa, faceva la parrucchiera e ogni tanto la aiutavo smontando bigodini roventi da teste altrettanto roventi appena uscite da sotto al casco.
Metti a posto i bigodi, metti a posto gli stiff, metti a posto la retina, esci a giocare.
In un attimo scavalcavo la ringhiera del balconcino che dava sul cortile, diviso tra cemento e piccole officine, ed ero pronto a perdermi nel mio regno di giochi e fantasie. In quel riquadro grigio e ruvido ho imparato a palleggiare con un pallone di gomma mezzo ovale. Cento palleggi tutti rigorosamente col piede destro, caracollando in maniera sgraziata.
Sempre lì ho imparato ad andare in bici, da solo.
Non c’era tempo per recarsi al parco con un papà paziente che ti spingesse e ti indirizzasse. Non c’era tempo e non c’era nemmeno il parco.
In compenso c’era quella bici rossa che il figlio di qualche condomino non usava più e che io avevo ereditato come fosse la bici più bella del mondo.
Pomeriggi interi dedicati con testardaggine a cercare l’equilibrio giusto per poter staccare i piedi da terra, dai gradini d’appoggio, e spiccare il volo verso un giro completo dell’intero perimetro senza pause o esitazioni.
Ricordo il caldo, le sudate, la tenacia e la gioia del risultato.
In quel cortile ho visto la prima cucciolata di gattini randagi nati da una micia chiara e diffidente che, solo dopo averci studiato per molto tempo, aveva preso l’abitudine di salire sul nostro balcone e venire a cercare del cibo nelle ore più opportune. Mangiava gettando occhiate circospette intorno e poi faceva in modo di tenersi sempre a distanza di sicurezza, girava al largo, fino al pasto successivo.
In quel cortile ho anche vissuto, in un certo senso, il mio avvicinamento al mondo misterioso del sesso. Un pomeriggio, rincorrendo il pallone a seguito di uno dei miei palleggi sghembi, trovai gettato sotto un balcone un sacco nero che conteneva dei fumetti pieni di donne nude.
Naturalmente la curiosità prese il sopravvento e, guardingo come la gatta nostra gradita ospite, cercando di non farmi scoprire, mi misi a frugare disordinatamente tra i giornaletti proibiti, sbirciando qua e là con sempre maggiore stupore e curiosità.
Inutile che vi dica che quel sacco era letteralmente pieno di pulci e così capii immediatamente cosa si intendesse quando si parlava di certi pruriti legati al sesso. Ci vollero litri di acqua e sapone e chilometri di imbarazzo per spiegare a mia mamma cosa fosse successo.
Papà faceva l’operaio, faceva i turni in fabbrica e in certi periodi lo vedevo poco perché quando tornava la mattina presto per me iniziava la giornata scolastica. Ho immagini confuse di quel periodo ma ricordo le sue mani, ne riparleremo.
Mamma e papà per me erano geniali.
Con un abile stratagemma e un po’ di sacrificio, riuscirono a raddoppiare i quaranta metri quadri del nostro appartamento praticamente utilizzando ogni ambiente per un duplice scopo.
La cucina aveva un divano letto.
Finita la cena e finito di sparecchiare e lavare i piatti, quel divano si trasformava nel mio letto e la cucina diventava camera mia e contemporaneamente salotto perché c’era il televisore rigorosamente in bianco e nero e a due canali.
La camera da letto dei miei, esaurita la sua funzione, si trasformava in negozio di acconciature semplicemente sollevando i due letti che andavano ad incassarsi in un mobile adibito allo scopo.
Il bagno, piccolino, era utilizzato naturalmente come bagno, ma in orario di negozio vi appariva un lava teste dove le clienti venivano servite di tutto punto. La mia soluzione, in caso di impellenza e di bagno occupato dal lavaggio testa di una cliente, stava semplicemente nello scavalcare la ringhiera del noto balconcino e cercarmi un angoletto in cortile, che a quei tempi si poteva fare senza che arrivasse l’assistente sociale o che ti sparassero direttamente dal balcone i condomini.
Il nostro bagno non aveva la vasca, aveva a malapena un braccetto doccia che noi utilizzammo, insieme ad una conchetta di plastica, per lavarmi finché la mia stazza lo permise, dopo di che, quando nella conchetta non ci stavo più, utilizzammo i bagni pubblici.
Non me ne vergogno e, credetemi, non intendo essere patetico.
Ricordo quell’esperienza come una cosa gioiosa della mia vita.
Era un’occasione per trascorrere un po’ di tempo con papà.
Si faceva una discreta passeggiata, per mano, si arrivava, si prendevano dei gettoni e ci si andava a lavare per bene, comodamente, molto più comodamente di quanto non consentisse casa nostra a quei tempi.
Fatto tutto si tornava a casa col sorriso sulle labbra, tutto qui, tutto normale.
Questa è stata la grandezza dei miei genitori.
La retorica del sacrificio ma anche la leggerezza nell’affrontare.
Non ho mai patito, non ho mai invidiato, ho imparato l’arte di sapersi accontentare di ciò che si ha, di comprendere limiti e possibilità.
Da bambino mi incantavo spesso a guardare le mani di mio padre.
Era il millenovecentosettantotto, avevo dieci anni.
C’erano i mondiali in Argentina.
Guardavamo insieme le partite in un orario in cui già faticavo a tenere gli occhi aperti. Io steso sul mio divano letto e papà seduto su di una sedia alla mia destra. Mamma già a dormire.
Teneva le mani in grembo e io girando di poco la testa le avevo proprio all’altezza del mio sguardo.
La cucina era buia e lui era illuminato dalla luce strana che scaturiva dal televisore acceso. Aveva mani grezze, forti, abituate al lavoro.
Unghie spezzate e un po’ annerite negli incavi delle dita.
Mi colpivano le vene, grosse, gonfie, intrecciate, sembravano strade.
Al confronto le mie erano manine di bimbo, delicate.
Sognavo il giorno in cui le avrei avute come lui ma quel giorno non è mai arrivato, le ho risparmiate dal lavoro crudo e sono rimaste delicate e infantili.
Incredibilmente quelle stesse mani le vedevo poi volare con leggerezza sullo strumento quando papà suonava il clarinetto.
Agili, scattanti, farfalle musicali che andavano a posarsi su ogni piccola nota.
Si percepiva proprio la differenza, le due anime della persona.
Una affaticata, stanca, nervosa.
Che utilizzava le mani per produrre pezzi, per tenere una sigaretta a scaricare tensione, per contare soprusi e ingiustizie.
L’altra nobile, alta, gioiosa.
Il riscatto nella musica, il sorprendere, stravolgere il giudizio delle persone, elevarsi, quello che avrebbe potuto essere.
Che avrebbe dovuto essere, secondo lui.
Ho percorso con gli occhi quelle vene, ho viaggiato, ho immaginato il futuro e intanto crescevo e lo costruivo.
Sono figlio di quelle due anime, di quelle due mani.
La destra che deve guadagnarsi sempre tutto con dedizione e sacrificio, la sinistra che rappresenta l’estro, quel po’ di capacità che ho saputo coltivare e che mi ha portato bene o male fino a qui.
È stato un giorno difficile, dammi una mano anche tu.

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