la memoria è un ponte verso la libertà

Amarcord

Premessa
Pazziare: da paizein o paizo (giocare). Per pazzià si può anche risalire al greco pàizo= scherzo, ma pure, sempre al greco, pathos= patimento fisico o morale. Uscire di senno, fare pazzie, soprattutto divertendosi follemente; per estensione, giocare, scherzare. In napoletano pazzià o pazziare ha tutto il significato e comprende tutti i sinonimi di scherzare, cioè giocare, spassarsi, divertirsi, svagarsi. Tant’è che i giocattoli si chiamano pazielle. In effetti chi gioca o scherza pazzeia cioè si allontana dalla realtà e viaggia con la fantasia, procurandosi situazioni piacevoli e immaginarie.

Amarcord voce romagnola, io mi ricordo, dal titolo dell’omonimo film del 1973 di F. Fellini. Ricordo, rievocazione nostalgica del passato.


Mi ricordo, sì mi ricordo ogni volta che vedo dei pezzi di legno, mi ricordo di quel ragazzino dagli occhi vispi con le mani che non stavano mai ferme, con i calzoni corti e dalle gambe graciline.
Amarcord, per me che sono nato dopo la fine della guerra, c’erano pochi giochi, non vivevo in una famiglia povera: ma in quella di un operaio, falegname, contadino. I giocattoli si vedevano a Natale, Natale dopo Natale: e qui ricorro a parte del testo di una canzone di Francesco De Gregori, Il 56:

A guardare nei ricordi sembra ancora ieri, che salivo su una sedia per guardare i treni. Eravamo forse solo nel ’56. E il Natale allora si, che era una festa vera, cominciavo ad aspettarlo quattro mesi prima, i regali mi duravano una settimana, un bambino, un bambino, E tutto mi sembrava andasse bene…

Niente di più veritiero, anch’io come tanti, credo, aspettavo il Natale che voleva dire regalo, gioco. Ricordo che un Natale ho ricevuto una monoposto da Formula 1, una Ferrari 500 F2 rossa, che le mie manine non riuscivano a contenere quanto era grande. Un altro Natale un elicottero che aveva un filo di acciaio di circa mezzo metro che terminava con una manovella che quando veniva girata permetteva all’elicottero di girare le eliche e alzarsi in volo; ma per poterlo far roteare dovevi assecondarlo e ruotare insieme a lui. Gira, gira la manovella Fiorentino, che l’elicottero gira più forte.
Ricordo di quel ragazzino dagli occhi vispi con le mani che non stavano mai ferme, con i calzoni corti e dalle gambe graciline, che non giocava molto con quei giocattoli e che era sempre in piazza a giocare con i coetanei a nascondino, con il cerchio, a volte a campana o a correre dietro un pallone e a sera rincasare quasi sempre con i gomiti o con le ginocchia sbucciate. I rimedi che usava mia mamma erano tre, credo secondo la gravità delle ferite: lo spirito, cioè l’alcool denaturato – dio se bruciava; l’acqua ossigenata – anche quella non scherzava; o quello più lenitivo che preferivo, lo streptosil –successivamente ritirato perché risultato cancerogeno.

Mio padre: operaio, falegname, contadino. Lavorava agli altoforni dell’Italsider (oggi Ilva trasferita da Napoli a Taranto) e faceva turni settimanali. Una settimana dalle 7 alle 15, un’altra dalle 15 alle 23, e la successiva dalle 23 alle 7 del mattino. Aveva una piccola bottega, ove da artigiano svolgeva lavori di falegnameria, ove si recava al mattino, quando i turni erano al pomeriggio o di notte, e di pomeriggio quando il turno era al mattino. Era anche contadino, in quanto aveva un terreno agricolo di media estensione in provincia di Caserta che lavorava con l’aiuto di suo cugino. Quando? Nei giorni liberi che cadevano tra un cambio di turno e l’altro. Un gran lavoratore mio papà, poco feeling e dialogo tra noi ma non mi è mancato mai nulla. E adesso, a tratti, mi manca… oh se mi manca!
A volte mi portava con sé nella sua bottega ed io stavo lì estasiato a guardare come dava vita al legno, ai fogli di compensato, alle strisce di legno più o meno lunghe; come usava la colla, il trapano, la pialla, i chiodi, le viti, il martello, la lucidatura. Ed ecco un tavolo, una credenza, un’intera cucina, una sala pranzo o una camera da letto. Ma ero un bambino e, come tutti i bambini, volevo giocare e ci riuscivo. Mi mettevo in un angolo, prendevo dei pezzi di legno di varia misura, tutti pezzi che erano avanzati ai manufatti di mio padre, e con l’aiuto della mia amica fantasia, che sin da allora non mi ha mai lasciato, usavo i pezzi di legno come macchine, camion, treni, aerei, palazzi, montagne. Diceva Giulio Nascimbeni, noto giornalista e scrittore: Pare che il nostro bisogno primario sia la fantasia.
Quando mio padre riscaldava la colla – ricordate Natale in casa Cupiello? – usava un pentolino simile che metteva su un fornellino a gas da campeggio e ci spezzava dentro dei pezzi che ricavava da un foglio di un colore giallo, marrone sporco. Approfittavo e ne usavo sempre un po’. Ad esempio prendevo due pezzettini di compensato uguali e li incollavo uno sotto ed uno sopra ad un pezzo di legno se lo trovavo tondo; altrimenti ad un parallelepipedo sul davanti incollavo un pezzettino di legno tondo, che doveva rappresentare l’elica… ed ecco il mio aereo, che governato dalle mie manine, andava su, su, per poi scendere velocemente in picchiata. Forte il mio aeroplano, faceva anche il giro della morte. Incollavo, dietro un pezzo di legno con la punta a triangolo, un altro più grande in orizzontale e al suo fianco ne mettevo uno più alto e fino: ecco fatta la chiesa. Tre o quattro pezzi incollati uno sopra l’atro ed ecco le case popolari. Altri da soli erano dei piccoli palazzi e alcuni rappresentavano dei grattaceli perché erano più alti. Un pezzetto triangolare messo su un altro ed ecco una barca a vela con la quale solcavo immaginari mari. Su di un pezzo di legno sistemavo davanti un tondino fuoriuscito da un nodo, dietro un pezzo più piccolo ed ecco la mia motrice a vapore alla quale attaccavo altri pezzi ed ecco il mio personale trenino. Creavo immagini, e, come Salgari avendo visto solo il mare di Napoli e il paesaggio collinare del paesino dei miei genitori, rappresentavo cose e fatti somiglianti ad una mia personale realtà. Immaginavo paesaggi di montagna innevati ove correva il mio trenino fatto di pezzi di legno che attraversava sbuffando vallate e si inoltrava all’interno delle montagne in interminabili gallerie. Camion che trasportavano merci di tutti i tipi, ora derrate alimentari, animali e guarda caso legnami di tutti i tipi. Macchine che scorrazzavano e attraversavano città immaginarie con tante case e grattaceli fatte con altri pezzi di legno; auto che finivano immancabilmente per scontarsi tra loro: “Signore io venivo di là, dovevo passare prima io; e no signore mio, lei non ha visto il semaforo, io avevo il verde“. Allora non sapevo di precedenze: destra, stop e segnali vari. Quante ore passavo in questo mio fantasticare con i miei “pezzotti”, che all’occorrenza, sempre secondo la mia fantasia, diventavano ora persone, ora muri; oltreché case, automobili, treni e aerei.
Quando tornavamo a casa mi portavo via alcuni pezzi di legno, tenendone alcuni nelle piccole tasche dei miei pantaloni corti e altri tra le mani. Mio padre mi redarguiva: “Cosa ci devi fare con questi pezzotti, lasciali qui”; “Ti prego, fammeli portare a casa così ci gioco”; “Va bene allora mettili in questa busta di carta così ne puoi portare di più”. A casa li conservavo sotto il letto e quando li tiravo fuori per giocarci, li animavo usando penne e matite e colorandoli con i miei pastelli e di nuovo i piccoli pezzi di legno diventavano di tutto: erano alberi, fontane, muri, scale, palazzi, diligenze, autobus, sedie ed ogni cosa che mi indicava la mia amica fantasia e con il suo aiuto andavo anche dove non si poteva andare. I miei treni e aerei mi portavano lontano, ora in America dove erano i miei zii o in isole lontane abitate da altri bambini con i quali potevo felicemente giocare.

Ogni qual volta vedo dei pezzi di legno o mi capita di fare dei piccoli lavori sia di ristrutturazioni o quant’altro e avanzano dei pezzi di legno… amarcord, sì mi ricordo. Mi ricordo di un ragazzino; di quel ragazzino dagli occhi vispi con le mani che non stavano mai ferme, con i calzoni corti e dalle gambe graciline, che aveva come giochi dei piccoli e inseparabili pezzi di legno di varia forma e natura.

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